Into the Landscape
[edition of 5 + 2 ap, cm 100x126 + special edition in 40x50cm only on Rise Art]
Estratto a cura di Roberta Valtorta, dalla mostra Into the Landscape, ConsArc Gallery, Switzerland, 2017.
«Il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive e che lui stesso ha costruito nel tempo è uno dei temi al centro della fotografia contemporanea. Da molti anni ormai.
In un tempo non lontano, nell’ultimo ventennio del secolo scorso, l’osservazione attenta del mondo attraverso la fotografia era vissuto come un modo molto importante per indagare e capire i luoghi nelle loro stratificazioni storiche e nella loro complessità carica di memorie. I luoghi, se fotografati tenacemente e a lungo, potevano svelare identità individuali e anche collettive.
Poi i luoghi sono diventati non-luoghi, le identità sono diventate sfuocate e mutevoli. Poi un nuovo termine è apparso: super-luoghi. Con la profonda trasformazione delle città e dei territori delle provincie e delle campagne progressivamente investiti dal modello urbano, abbiamo visto, e vediamo, e viviamo, un inedito cambiamento di scala degli spazi e degli oggetti, in un processo di decentramento, di espansione centrifuga e capillare, verso, chissà, la formazione di regioni metropolitane estese.
La fotografia, nel contempo, assediata dalle immagini globalizzate del mobile video e della duttile produzione digitale, e afferrata dalla rete onniavvolgente e martellante, ha risposto alla questione della rappresentazione dello spazio antropizzato sostanzialmente in due direzioni.
Da un lato i fotografi hanno rivolto lo sguardo a piccole cose quotidiane, un muro, una strada, una casa, il suo interno, la luce, l’erba di un prato, la porta di casa, la polvere di un periferia, e poi un volto, e le piccole storie individuali. Cose minori, marginali, laterali: frammenti.
Dall’altro hanno fatto ritorno alla grande veduta dall’alto (antica, nobile, già ottocentesca, si pensi ai primi dagherrotipi delle città, si pensi, più lontano, al vedutismo o al Romanticismo in pittura) nell’estremo tentativo di abbracciare e capire (nel senso etimologico del termine) la grande complessità, la modularità, la ripetitività delle strutture costruite dall’uomo, il sommarsi di funzioni diverse nelle diverse porzioni del paesaggio, dal produrre all’abitare, dalla logistica distributiva ai terreni ancora agricoli. Il tentativo di misurare un mondo divenuto forse non più misurabile attraverso la visione.
Nella nostra difficile contemporaneità, Filippo Brancoli Pantera sceglie di appartenere a questa famiglia di fotografi. Stabilire una distanza dalla quale guardare il mondo costruito dagli uomini e la natura rimasta in vita è la base stessa del suo metodo, una distanza che garantisce una visione complessiva del territorio antropizzato. La distanza a cui porsi per riprendere la scena è senza dubbio uno dei dispositivi della visione messi a punto da una vasta corrente di autori contemporanei, da John Davies, a Thomas Struth o Andreas Gursky, da Peter Bialobrzewski a Sze Tsung Leong e Taiji Matsue, fino agli italiani Walter Niedermayr, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella, Gabriele Basilico, Armin Linke, Massimo Vitali, Domingo Milella. Per non fare che pochi esempi.
La visione adottata da Brancoli Pantera è a suo modo possente, poichè mira a costruire narrazioni concluse, ampie e mai frammentarie. Si tratta di uno sguardo di natura socio-antropologica sul paesaggio, che riguarda non solo le grandi città ma anche i territori delle provincie, nei quali appare più evidente il rapporto tra paesaggio costituito da manufatti e paesaggio naturale – la montagna, le sue rocce, il bosco, i prati, la collina coltivata, le acque. Come se l’autore cercasse, in fondo, ancora una volta, al di là dell’impianto grandioso delle immagini, una possibile residua intimità dei luoghi, che possa ancora rivelare i percorsi fatti dagli uomini per insediarvisi, e le ragioni delle loro scelte nel tempo».
Roberta Valtorta
Milano, 27 Agosto 2017.